Domenica 2 aprile 2017

Domenica 2 aprile 2017


Alla solita colazione, a cui ormai mi sono rassegnata, fatta di roba troppo dolce o troppo chimica o troppo tutte e due, Paolo aggiunge un tocco di horror arrivando con una ciotolina piena di una cosa che sembra ripieno di pastiera napoletana appena vomitato e al mio sguardo incerto risponde con un giulivo “Pappa d’avena, era una vita che volevo assaggiarla!” … una vita sprecata, concluderà senza portare a termine il coraggioso tentativo. Ben ti sta, amore mio … vabbé che anche la pajata ha lo stesso aspetto, hai ragione tu. Se i nostri antenati nelle caverne non avessero assaggiato la pappa d’avena probabilmente non avrebbero mai inventato il fuoco per non essere costretti a mangiarne ancora, immagino :D


Si riparte in direzione Crawfordville, la ridente (?) cittadina dove dormiremo stasera, e della quale non sapremo mai se ride o meno perché il nostro hotel è su una statale che la circumnaviga. Constatato che è prestissimo, non c’è il minimo accenno di traffico e la strada è tutta dritta, eroicamente mi propongo per la prima tratta al volante … ogni tanto ci fermiamo a fare qualche foto spinti solo dal caso e dallo sguardo, questi posti hanno una bellezza tranquilla e pacificatrice, molto lontana dalla spettacolare abbondanza di emozioni che riserva l’Ovest, e in questo momento sono esattamente il contorno che ci vuole per tutti i pensieri che mi agitano … ancora nessuna notizia da Verona, chissà se il trasferimento nella capitale si concretizzerà, se mi daranno il tempo di fare almeno la valigia con l’essenziale, chissà se salterà tutto, chissà se ho preso la decisione giusta per l’impianto cocleare … queste distese morbide di acqua, di sole e di erba mi aiutano a calmarmi, a respirare piano e guardare al presente.





















Dopo una breve sosta ai resti di Fort Gasden, poco più di una montagnola di terra con dei ferri arrugginiti che un tempo sono stati piazzaforte e cannoni a guardia del fiume, ci fermiamo a fare scortanal Piggly Wiggly di Apalachicola, tuttora il supermercato con il nome più bello mai incontrato :D, dove ho la sorpresa di trovare un banco gastronomia con salumi – qualcosa che ci somiglia, insomma – affettati al momento e un assortimento un po’ diverso dal solito Walmart, il che non manca di incuriosirci e divertirci. Quando alla fine ci cacciano, facciamo un giro per la ridente (?) Apalachicola, che immagino sia un po’ meno uggiosa nelle giornate di sole, visto che è una cittadina graziosa e simpatica, e i colori del cielo di oggi non le rendono giustizia. Ci sono un sacco di negozi di quelle che mia nonna chiamava ratatuie, e anche qui ci facciamo conquistare, facciamo shopping, curiosiamo, fotografiamo, ridiamo. 
































Prima di riprendere la strada ci concediamo un caffè inaspettatamente ottimo e ce ne ripartiamo con questa perla di saggezza degna di mia nonna, che riscuote tutta la mia approvazione:

















La strada che corre infinita attraverso la Apalachicola Forest ha una sua bellezza peculiare, rilassante, tenera. A un certo punto ci accorgiamo di una linea ferroviaria che corre parallela all’asfalto e ogni tanto rientra nella foresta, su ordine di Paolo con una manovra che Bo e Luke Duke scansateve entro con tutta la baldanza di cui sono capace in un viottolo a senso unico, scendiamo, foto ai binari, insulti alla farfalla bastarda che non vuole star ferma, foto ai binari, altri insulti alla farfalla di prima, altre foto ai binari, poi realizzo che devo tornare indietro in retro e l’entusiasmo insultatorio scema anzichenò. Vabbè, come siamo entrati usciremo, e col cavolo che chiedo a Paolo di guidare lui. 






















Insomma, alla fine della mia potente retromarcia mi sento dire … amore, da grande puoi fare la giardiniera, ti vedo portata per le macchine da potatura. A quel punto sono così offesa che mi prende una ridarella irrefrenabile, cedo volante e vandalismi nel vano tentativo di riprendermi da un attacco di convulsioni ridarole, e ripartiamo sulla strada nella foresta, che inizia a farsi incolta e mi ricorda vagamente le immagini di Sumatra dopo l’eruzione del Krakatoa, verde e desolazione, con le stesse case brutte e cadenti ma con molte più chiese, anche qui in sovrannumero rispetto alle abitazioni e minacciosamente intente a pubblicizzare l’inferno per coloro che non frequenteranno le celebrazioni e soprattutto non faranno degne offerte per contribuire alla causa. Uhm, la mia simpatia per le religioni organizzate non fa che crescere, qua.



Arrivati al parco dei Leon Sinks ci occupiamo del pranzo: io preparo il nostro (dei bei panini con una cosa che somiglia vaghissimamente alla porchetta, non quella di Ariccia, quella strassa che vendono in Veneto, ma vabbé), Paolo si occupa di nutrire con il suo sangue qualunque bestiola svolazzante si trovi nel raggio di un paio di km. Scopro con raccapriccio che ci siamo dimenticati di comprare gli Oreo Mega Stuff dopo aver finito le prime due scatole, e mi incupisco assai, tanto che Paolo ritiene opportuno rasserenarmi aprendo le patatine d’emergenza: sour cream e jalapenos, perché noi in viaggio ci teniamo a mangiar sano. E poco. E sano. E poco. Sano, l’ho già detto?

Rifocillato il corpo e rinfrancato lo spirito, facciamo il giro dei Sinks su un sentiero ben segnalato e benissimo tenuto: i parchi statali fanno concorrenza al NPS, devo dire. I Sinks sono enormi doline piene d’acqua immerse nella foresta, creano un clima misterioso e fiabesco, nascosti tra la vegetazione – ma ben protetti da robusti parapetti – a volte a profondità impressionanti, racchiudono animali invisibili nel loro cuore oscuro, riempiono la foresta del bagliore luccicante dei riflessi del sole sull’acqua. Di nuovo, non è lo spettacolo grasso e prepotente cui ci ha abituati l’America “solita”, ma un viaggio in una dimensione magica e diversa che non manca di conquistarci. Alla fine del trail la sorpresa più bella, un boschetto di mangrovie immerso in una pozza, i barbagli che il sole trae dall’acqua immobile vengono improvvisamente disturbati da un’onda sinuosa … un serpente, dapprima indistinguibile poi sempre più vicino, che per fortuna prende una direzione opposta alla nostra. Ci affrettiamo a percorrere la passerella fino in fondo, è stato un bell’incontro ma se anche non diventa ravvicinato siamo felici uguale :D




















Raggiungiamo Crawfordville e l’hotel, dove la simpatica signora alla reception saputo che questo è il nostro (quarto, e state a guardà er capello!) viaggio di nozze ci assegna la suite, che lasciamo quasi subito per andare a goderci il tramonto al Faro di St Mark poco lontano. La stessa idea, peraltro meravigliosa, l’hanno avuta miliardi di moscerini cattivissimi, che mentre ammirano il sole che scende sul mare si fanno lo spritz con il nostro sangue, a questi sono simpatica anch’io, ma noi indomiti ci lasciamo mangiare anche il cuoio capelluto pur di portare a casa un po’ di foto, e ci fermiamo anche in qualche viewpoint sulla strada del ritorno, tiè, morirete tutti perché io sono velenosa, ecco!







































Per cena ci facciamo attrarre ed ingannare dalla promessa di ostriche, ostriche, ostriche a profusione di un certo Outz, locale solitario e ben recensito sulla strada del ritorno in hotel. Ci accomodiamo e siamo subito delusi. Ostriche finite … peccato, facciamo gamberi. Gamberi finiti. Peccato, facciamo pescato del giorno. Pescato del giorno finito. Ci guardiamo … ce ne andiamo o prendiamo la ciccia? Prendiamo la ciccia, dai, è buona dappertutto in America. Sbagliato: la cena più deludente in cinque viaggi sul suolo Usa, di gran lunga la più deludente: vi dico solo che le insalate pronte di Walmart sono meglio, soprattutto se non ci mettete le loro orride salsine e le condite come creanza comanda. Un po’ avviliti ma comunque felici per l’ennesima giornata stupenda ce ne torniamo a far la nanna, non prima di esserci cosparsi di antipulci per smettere di grattarci. Maledette bestioline!

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